IL TRIBUNALE
    Sciogliendo la formulata riserva.
   Premesso  che  la  curatela  del fallimento Calzaturificio Fiorina
S.p.A.,  dichiarato  giusta  sentenza  di questo Tribunale in data 31
marzo  2005, ha proposto contro la Cassa di risparmio di Prato S.p.A.
una  domanda  ex  artt.  42  e  44,  legge fall. finalizzata a sentir
dichiarare  l'inefficacia,  nei  confronti  della  massa,  di  talune
rimesse  confluite  su  conto  corrente  della fallita - e incamerate
dalla banca - in epoca successiva alla sentenza di fallimento;
     che cio' ha fatto, in data 20 febbraio 2007, mediante ricorso ex
art.  24, secondo  comma, legge fall., sul presupposto dell'immediata
applicabilita'  di  consimile  disposizione, a far data dal 16 luglio
2006, a tutte le azioni derivanti dal fallimento;
     che  la  Cassa si e' costituita deducendo l'inapplicabilita' del
rito  camerale, di cui al citato art. 24, secondo comma, legge fall.,
alle  controversie  relative alle procedure fallimentari aperte prima
del  16  luglio  2006;  e, in subordine, ha sollecitato il collegio a
valutare  la  legittimita'  costituzionale  della nuova disposizione,
infine  contestando  il fondamento della domanda anche per ragioni di
merito;
     che  questo  Tribunale,  tanto premesso, con ordinanza 21 maggio
2007, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art.
24, secondo  comma, legge fall. nel testo sostituito dall'art. 21 del
d.lgs.  9  gennaio 2006, n. 5, in riferimento agli artt. 76, 3, primo
comma, 24, secondo comma, e 111, primo comma, Cost.;
     che invero l'ordinanza ha cosi' motivato:
      «II. -  Cio'  fermo stante, reputa il collegio che la causa sia
stata  esattamente incardinata, da parte attrice, mediante ricorso al
rito  camerale  dettato  dall'art. 24, secondo comma, legge fall.; ma
che  la  disposizione  da  ultimo  citata, nello stabilire che, salva
diversa  previsione,  alle  controversie  di  cui  al  primo comma si
applicano  le  norme  previste dagli artt.737 -742 c.p.c. (con deroga
alla  disciplina  di  cui all'art. 40, terzo comma, c.p.c.), non vada
immune,  per le ragioni che seguono, da fondati dubbi di legittimita'
costituzionale.
      III. -  Punto  decisivo, in tema di rilevanza, attiene al fatto
se  alle  azioni  ex art. 44, legge fall., proposte dopo il 16 luglio
2006  (data  di  entrata  in vigore della riforma ex d.lgs. 9 gennaio
2006,  n. 5,  salve  le  modifiche apportate agli artt. 48, 49 e 50),
debba  o meno essere applicato il procedimento in camera di consiglio
di cui al nuovo testo dell'art. 24, secondo comma, legge fall.
   Al quesito devesi fornire risposta affermativa.
   La sanzione, che colpisce gli atti compiuti e i pagamenti eseguiti
o  ricevuti  dal  fallito  dopo  la  dichiarazione  di fallimento, e'
l'inefficacia.
   Legittimato  a  far  valere  codesta  condizione,  ai  fini  della
conseguente  azione  restitutoria,  e'  unicamente  il  curatore  del
fallimento.
   Su codesti principi non si registrano dissensi.
   Non  par  dubbio,  allora,  che  trattasi  di azione derivante dal
fallimento:  il  fallimento  essendone  il  presupposto e non potendo
l'azione  stessa  ammettersi  se  non  a  seguito  dell'apertura  del
concorso.
   Secondo il disposto ex art. 24 legge fall., nel testo in vigore al
momento  della  instaurazione  della  lite,  le  azioni derivanti dal
fallimento sono soggette al rito camerale.
   Donde, atteso il generale criterio tempus regit actum, valevole in
materia  processuale  in mancanza di apposita disciplina transitoria,
alle  azioni de quibus deve applicarsi la legge processuale del tempo
in cui le stesse sono esercitate.
   Ne',  per superare il rilievo, sembra al collegio potersi far leva
sulla generale previsione transitoria apposta, ex art. 150, al d.lgs.
n. 5 del 2006.
   Appare risolutivo considerare, in contrario, che questa previsione
contiene  la  disciplina transitoria dei ricorsi per dichiarazione di
fallimento  (o  di  concordato  fallimentare) depositati prima del 16
luglio 2006, e delle procedure concorsuali pendenti alla stessa data;
nel  senso  che detti ricorsi e dette procedure sono definiti secondo
la legge anteriore".
   Il   testuale   riferimento,  ai  "ricorsi  per  dichiarazione  di
fallimento"  alle  "domande  di  concordato  fallimentare  depositate
prima",  e alle "procedure di fallimento e di concordato fallimentare
pendenti", ne identifica - e ne delimita - l'oggetto.
   Non  appare  quindi  seriamente  contrastabile  il  rilievo - gia'
formulato  da  certa  dottrina  - che la disposizione ex art. 150 non
riguarda  altro  che  i  pendenti  procedimenti  prefallimentari,  le
procedure   fallimentari   gia'   aperte   e,  al  piu',  i  relativi
procedimenti endofallimentari; non anche, invece, le azioni autonome,
che semplicemente dal fallimento derivano, e che vanno a parare in un
giudizio extrafallimentare.
   Da  cio'  la  rilevanza, nel presente giudizio, della questione di
costituzionalita' afferente l'art. 24, secondo comma, legge fall.
      IV.   -   A   giudizio   del   collegio,   la  disposizione  e'
incostituzionale  per  violazione,  innanzi tutto, dell'art. 76 Cost.
(cd. eccesso di delega).
   Al riguardo viene in rilievo l'art. 1, comma 6, della legge delega
14 maggio 2005, n. 80.
   Con  detta  norma  e'  stato  espressamente conferito il potere di
«modificare la disciplina del fallimento»; ed e' stato precisato che,
in  un tale ambito oggettivo, l'esercizio del potere di modifica deve
avvenire  nel  rispetto  -  per  quanto  di  interesse - del criterio
direttivo  di  semplificazione-accelerazione  (art. 1, comma 6, lett.
a),  n. 1):  "semplificare  la disciplina attraverso l'estensione dei
soggetti     esonerati     dall'applicabilita'     dell'istituto    e
l'accelerazione  delle  procedure  applicabili  alle  controversie in
materia".
   Anche in ordine alle controversie, dunque, il potere di intervento
del  governo  devesi  ritenere  essere  stato  conferito  nei  limiti
dell'oggetto  della  disciplina  del  processo fallimentare, in senso
funzionale  (di  semplificazione  e  di accelerazione del processo di
fallimento)  e  in senso oggettivo (mediante il riferimento alle sole
controversie "in materia fallimentare").
   Sembra  al  collegio,  cioe',  che -  stante  il  conferimento del
"potere   di   modifica   della   disciplina   del  fallimento" -  la
disposizione  della  delega  fosse nel senso dell'accelerazione delle
procedure  applicabili  ai  ricorsi per dichiarazione di fallimento e
alle  successive  controversie  endofallimentari,  con  implicita, ma
inequivoca,  esclusione  di  ogni  riferimento  ai  processi ordinari
semplicemente  derivanti  dal fallimento. Il tutto in coerenza con la
ratio  di semplificazione del cd. processo di fallimento in se' e per
se' considerato.
   E  difatti  nessuno  dei  successivi  principi e criteri direttivi
appare  destinato  a  consentire,  al governo, di stabilire una nuova
disciplina  processuale  delle  azioni  ordinarie  che  derivano  dal
fallimento.
   Se  questo  e',  appare chiaro che l'art. 24, secondo comma, legge
fall.,  nel riferire la specificita' del processo ivi indistintamente
stabilita,  secondo  l'innovato  modello  camerale  puro,  a tutte le
azioni  che  derivano  dal  fallimento,  comprese  le azioni autonome
extrafallimentari, ha ecceduto i limiti imposti dalla delega, finendo
col  coinvolgere  in  un  unico rito (oltre tutto privo di adeguate e
predeterminate  regole  formali)  vuoi  le  controversie  "in materia
fallimentare" (id est, quelle relative alle singole fasi del processo
di fallimento) , vuoi le controversie che semplicemente suppongono il
fallimento come mero (ancorche' necessario) presupposto.
      V.  -  In  secondo  luogo,  e comunque, la disposizione ex art.
24, secondo comma, legge fall. appare incostituzionale per violazione
degli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, primo comma, Cost.
   Il  riferimento all'art. 3 Cost. viene fatto in relazione al ruolo
che  il  principio  di  uguaglianza  e' venuto ad assumere nel tempo,
quale clausola generale di ragionevolezza.
   Tenendo  in  conto  i  correlati limiti imposti dal principio alla
legislazione    ordinaria,    appare   al   collegio   manifesta   la
irrazionalita'  della  imposizione  del  modello  processuale di tipo
camerale  al  di  fuori  dell'ambito  funzionale  di  esso proprio, e
segnatamente per la soluzione di controversie direttamente involgenti
la  tutela  di diritti soggettivi (tale essendo quella che ne occupa,
al  pari  -  per  proporre  taluni  esempi - delle azioni revocatorie
fallimentari  e  delle  azioni  di  responsabilita'  ex art. 2394-bis
c.c.):  modello  camerale puro utilizzato alla stregua di contenitore
neutro,  privo  di  una  specifica  regolamentazione delle fasi della
cognizione;  e  anzi  rimesso  alla  discrezionalita'  del  giudice e
destinato a concludersi con un decreto non suscettibile di giudicato.
   Sembra  al  collegio  irragionevole,  in  particolare,  e pertanto
lesiva del principio ex art. 3 Cost., la scelta di imporre il modello
camerale  puro  (ex  artt. 737 e seg. c.p.c.) in senso funzionale non
gia'  alla  realizzazione  di  obiettivi  tipici  della giurisdizione
camerale  in  se',  quanto  in  funzione  della  realizzazione  degli
obiettivi della giurisdizione ordinaria.
   Una  simile  prospettiva  irragionevolmente trascura la differenza
ontologica  della  tutela  camerale rispetto a quella ordinaria, alla
luce   della  quale  differenza  potersi  giustificare  il  carattere
deformalizzato della prima rispetto a quello formale della seconda.
   Invero,  non  appare  il  procedimento  camerale  in senso stretto
destinato   alla  tutela  del  diritto  soggettivo  in  funzione  del
giudicato  (che  e'  invece  essenziale  quando si discorra di tutela
piena  del  diritto  soggettivo),  sebbene  alla  tutela  di  mere  e
specifiche  facolta'  (o di poteri) comprese nel piu' ampio contenuto
del  diritto  soggettivo  stesso (previa contestuale valutazione, per
cio',  di  eventuali concorrenti interessi superindividuali). Mentre,
garanzia  fondamentale dei processi a cognizione piena, siano essi di
rito  ordinario  o  di  rito speciale, nei quali l'accertamento della
situazione giuridica soggettiva deve poter sfociare nel giudicato, e'
l'esattamente opposta predeterminazione delle forme.
   La  estensione  generalizzata  a  tutte le azioni che derivano dal
fallimento  del modello di giurisdizione camerale ex artt. 737 e seg.
c.p.c.,  oltre  che  irrazionale per omessa considerazione dei limiti
funzionali   del  modello  camerale  in  se',  appare  determinativa,
altresi', di una disparita' di trattamento tra situazioni omologhe di
accertamento  e di tutela del diritto soggettivo per il sol fatto che
l'azione abbia come presupposto il fallimento di una delle parti.
   In  piu' la predetta medesima estensione alimenta il dubbio di una
compressione   dei  diritti  di  difesa  garantiti,  alle  parti  del
processo,  dall'art.  24,  secondo  comma, Cost., atteso l'effetto di
esporre  le  parti  medesime  a regole processuali correlate a sempre
incerte  direttive giurisdizionali, variabili, oltre tutto, a seconda
dell'ufficio giudiziario.
   E  infine  non pare compatibile col generale principio ex art. 111
Cost.   che  vuole,  oggi,  ogni  "giusto  processo"  necessariamente
"regolato  per  legge"  in  vista  del  perseguimento della finalita'
propria  del  tipo funzionale, apparendo - la ricordata generalizzata
estensione  del  modello camerale - in contrasto con l'intima essenza
dello  stesso  principio  del  giusto processo tratto dalla superiore
previsione  costituzionale,  che  impone  previamente  di applicare a
ciascuna  forma  giurisdizionale una regolamentazione normativa ("per
legge")  che  tenga conto delle caratteristiche dell'accertamento che
si richiede.
     VI. - E' appena il caso di aggiungere che, sulla questione cosi'
come   prospettata,  non  sembra  di  alcuna  influenza  ostativa  il
precedente  rappresentato da Corte cost. 1998/141, per la sostanziale
diversita'  dell'ambito  di  riferimento  in rapporto ai parametri di
costituzionalita'  presi in considerazione. Ed anzi, proprio seguendo
l'impostazione  di quel precedente, e' da osservare che non e' qui in
discussione  la  legittimita'  del  rito  camerale in se', sebbene la
doverosa    valutazione,   all'indicato   fine   del   controllo   di
costituzionalita',   "della  rispondenza  del  medesimo  a  obiettive
ragioni giustificatrici, e in primo luogo alla natura del processo in
cui  tale rito si svolge"  cosi' in motivazione C. cost. n. 1998/141,
in riferimento a C.cost. n. 1989/587 (ord.).
     VII.  -  Quanto  esposto  induce  il  collegio  a  sollevare  la
questione di costituzionalita' sopra indicata.
   Alla luce del testuale richiamo dell'art. 24, secondo comma, legge
fall.  agli  artt.  "da  737  a  742 del codice di procedura civile",
nessuna  interpretazione  sembra  infatti  sperimentabile  in  chiave
adeguatrice,   nel   senso  di  una  selezione  tra  le  disposizioni
richiamate  ovvero in funzione della inapplicabilita' del riferimento
integrale  al modello camerale puro per le azioni ordinarie derivanti
dal fallimento.».
      che  la  Corte  costituzionale,  con  ordinanza 24 aprile 2008,
n. 117,  ha  disposto  la restituzione degli atti a questo Tribunale,
affinche'  fosse valutata la perdurante rilevanza della questione nel
giudizio a quo;
      che  invero  la  Corte  ha  ritenuto  che,  successivamente  al
deposito  dell'ordinanza  21  maggio  2007  di  questo  Tribunale, e'
entrato  in  vigore il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che all'art.
3, primo   comma,   ha  espressamente  previsto  l'abrogazione  della
disposizione oggetto del dubbio di legittimita' costituzionale;
      che  questo  tribunale reputa di dover confermare la perdurante
rilevanza della riferita questione sul rilievo che sulla medesima non
appare  influire  la  sopravvenuta abrogazione di cui al succitato d.
lgs. correttivo.
   Si  osserva  difatti  che  l'art.  3,  primo  comma, del d.lgs. 12
settembre  2007,  n. 169,  ha  si' abrogato l'art. 24, secondo comma,
legge  fall.  nel testo di cui all'art. 21 del d.lgs. 9 gennaio 2006,
n. 5;  e  tuttavia,  in  base  alla  previsione  generale transitoria
contenuta  nell'art.  22 del d.lgs. n. 169/2007, l'effetto abrogativo
rileva a far data dal 10 gennaio 2008, con riferimento alle procedure
concorsuali aperte successivamente.
   Dispone  infatti l'art. 22 cit. che il decreto correttivo entra in
vigore  il 1° gennaio 2008 e le relative disposizioni si applicano ai
procedimenti  per  dichiarazione  di fallimento pendenti alla data di
entrata in vigore e alle procedure concorsuali aperte successivamente
alla sua entrata in vigore.
   (E' fatta salva l'applicazione alle procedure concorsuali pendenti
delle  sole  disposizioni  -  qui  non  rilevanti - ex artt. 7, sesto
comma, 18, quinto comma, 19 e 20.)
   La  disposizione  abrogativa ex art. 3, primo comma, che parimenti
riguarda,   non   le  procedure  concorsuali  o  i  procedimenti  per
dichiarazione  di  fallimento,  sebbene,  di  riflesso  all'art.  24,
secondo  comma,  legge  fall.,  le  azioni  ordinarie  (vale  a  dire
extrafallimentari)  che  dal fallimento derivano, non e' direttamente
mentovata in seno alla previsione transitoria.
   Sicche'  delle  due,  l'una:  o  si  dice che l'art. 22 del d.lgs.
n. 169/2007,   nel   riferirsi   alle  procedure  concorsuali  aperte
successivamente  alla  sua  entrata  in  vigore,  ha  inteso limitare
l'effetto  abrogativo  di cui all'art. 3 alle sole azioni derivate da
fallimenti   aperti   dopo  il  l°  gennaio2008,  cosi'  contemplando
un'implicita  disciplina  transitoria  anche  per  cio' che attiene a
dette azioni; oppure si dice che l'art. 22 cit. ha inteso dettare una
disciplina transitoria che riguarda le sole disposizioni direttamente
involgenti la disciplina concorsuale in se' (endofallimentare), cosi'
stabilendo,   quanto  alle  azioni  extrafallimentari,  l'abrogazione
immediata  dell'art. 24, secondo comma, legge fall. a far data dal 1°
gennaio 2008.
   In  entrambi  i casi, tuttavia, resta indubbia la non interferenza
dell'effetto  abrogativo  sulla fattispecie processuale che qui viene
in  considerazione:  nel  primo, quale diretta emanazione della cosi'
ricostruita  disciplina  transitoria (che farebbe deroga al principio
dell'immediata   vigenza   delle   norme   sul   processo  correlando
l'abrogazione  dell'art.  24, secondo  comma, legge fall. alle azioni
derivanti da fallimenti aperti dopo il 10 gennaio 2008); nel secondo,
quale conseguenza del principio processuale tempus regit actum.
   E difatti, anche seguendosi - come reputa di fare questo Tribunale
- la seconda delle succitate interpretazioni (siccome piu' rispettosa
dei  principi  generali  relativi  alla  successione  delle norme sul
processo),   e   ritenendosi   l'art.   3, primo  comma,  del  d.lgs.
n. 169/2007  sottratto alla previsione transitoria che lega (art. 22)
l'applicazione  del decreto correttivo ai soli fallimenti aperti dopo
la  sua  entrata  in  vigore, si deve comunque ricavare l'inidoneita'
dell'art.  3, primo comma, del d.lgs. n. 169/2007 ad attingere azioni
gia'  esercitate  alla predetta data di entrata in vigore del d. lgs.
n. 169/2007.
   Questo  perche', in materia processuale, la regola fondamentale e'
quella  della  efficacia delle norme processuali in rapporto ai fatti
compiuti  (tempus  regit actum); donde la successione della legge nel
tempo,  da  un  lato,  comporta  la  necessaria  salvezza  degli atti
compiuti  (facta  praeterita),  e,  dall'altro, impone l'applicazione
delle  norme nuove ai soli atti da compiersi, ferme restando tuttavia
l'unita' e la coerenza interna del procedimento.
   Pertanto,  in  mancanza  di  disposizioni transitorie con riguardo
all'applicazione delle nuove norme processuali, non appare consentito
fare  delle  medesime un'applicazione retroattiva (oltre tutto lesiva
dei  precetti costituzionali di ragionevolezza e di assicurazione del
diritto   di   difesa:   artt.   3  e  24  Cost.),  dovendosi  invece
salvaguardare  l'unita' del procedimento e seguire un'interpretazione
ultrattiva delle disposizioni abrogate (cfr. per singole applicazioni
Cass. sez. un. 2007/5394; Cass. 2004/7053; Cass. 2003/6877).
   Osserva  il  collegio  che  si  e' qui in presenza di disposizioni
relative  al tipo processuale merce' il quale trattare il giudizio in
coerenza  con  le modalita' di sua instaurazione, se, cioe', processo
camerale  o  processo  di  cognizione;  ed  e'  evidente  che  l'atto
introduttivo  della  lite,  regolato  dalla legge processuale del suo
tempo e giustamente attestato, in base a questa, sul ricorso a un ben
determinato  tipo  processuale  (il  processo camerale), ha in questo
senso  gia'  prodotto  i  propri effetti in senso non compatibile con
l'applicazione immediata della disposizione abrogativa.